lunedì 12 novembre 2012

Raffaele Cutillo, gli Aveta, Caserta e la città.

Caserta è una città strana, forse non è nemmeno una città.
Le città sono grandi e dispersive, caotiche, di tutti e di nessuno. Caserta no, è piccola e ordinata, le strade pulite, i sensi unici e i semafori come sulle piste con le automobiline che si regalano ai bambini, le belle vetrine, i grandi bar, i giardini, i giochi per i bambini, i solerti ausiliari del traffico, i viali alberati, le panchine esposte al sole, gli anziani (e non) sulle panchine, le signore in bicicletta, c'è anche il traffico ma è un traffico ordinato, tutti in fila e quasi mai si sente suonare il clacson. Tutti conoscono tutti, come nei paesini, ma Caserta non è un paesino. Forse non è una città, ma non è nemmeno un paesino.
A me ha sempre dato la sensazione di essere una città finta. Un contenitore a forma di città senza la città dentro. Un luogo raccolto intorno ad una maestosa reggia che gioca a fare la città senza esserlo, come fanno i bambini quando giocano a mamma e figlia... facciamo che io sono la mamma e tu la figlia? Facciamo che io sono una città? 
Almeno questa è Caserta come la vedo io che non sono Casertana e ci vado ogni tanto.


Lo scorso sabato sera, 10 novembre, a Curti (provincia di Caserta), sulla via Appia in un capannone adibito a deposito della Aveta s.p.a. della famiglia Aveta ha avuto luogo l'evento culturale "Adda passa' a' nuttata" a cura dell'arch. Raffaele Cutillo (Ofca Officina Cutillo Architetti) e del dott. Matteo De Simone (International Association for Art and Psychology).

[Nello scorso mese di luglio, l'architetto Cutillo aveva annunciato la chiusura dell'Ofca. Spostando altrove la sede del suo studio di architettura e lasciando gli ampi spazi dell'ex officina meccanica che occupava, lasciava orfani di luogo gli eventi culturali di cui si era fatto promotore (82 eventi in 5 anni!) e tutti quelli che aveva sostenuto: artisti, performers, scrittori, antropologi, fotografi, intellettuali, giornalisti, grafici, architetti, poeti, musicisti, ballerine e creativi che lì avevano trovato spazio per esprimere e condividere con gli altri il loro lavoro, le loro passioni, le loro visioni. Una chiusura che gran parte dei casertani e non solo loro hanno subìto dolorosamente. E tutto avveniva sotto gli occhi e le orecchie distratte o insensibili delle istituzioni locali.
Ad agosto la famiglia Aveta chiama l'arch. Cutillo e mette a disposizione un pezzo della sua azienda perché l'Ofca avesse ancora uno spazio.]

Non ero mai stata a Curti. La via Appia è la solita via larga con esercizi commerciali a destra e a sinistra, le luci, il traffico, gli ormai immancabili negozi dei cinesi, i pub, i palazzetti a due o tre piani con le facciate in vetro che servono da vetrine.. Arriviamo davanti ad Aveta, ci chiedono di registrarci per potere accedere, ci danno un elmetto giallo protettivo di quelli che usano gli operai nei cantieri. Sono circa le 18.30, l'orario sull'invito era segnato per le 18.00. Percorriamo un corridoio immerso in una luce rossa, silenzioso, lo spazio che ci scorre accanto e piano piano si apre è suggestivo, cambia colore, ci offre cose interessanti alla vista, poi si apre definitivamente ai nostri occhi. Meraviglia. Un capannone industriale inondato di voci e di gente.


Ho una predilezione per l'architettura industriale e per gli spazi e gli arredi ad essa connessi. Mi sembra, questo tipo di architettura, estremamente schietta, essenziale, senza fronzoli. La forma aderisce alla funzione, non c'è spazio per il decoro, per il belletto, la bellezza sta nell'essenza. Il capannone/deposito degli Aveta è bellissimo. Scaffalature di metallo, alte e ordinate a raccogliere materiali, l'impianto elettrico e le tubature a vista, il cemento nudo, le grandi lampade al soffitto, spente, che pareva guardassero frastornate, silenziose, incuriosite da lassù quello che accadeva di sotto.
L'allestimento non violentava lo spazio. Non lo snaturava, lo rispettava fino ad esaltarlo. Sulle pareti sgombre sono state sistemate e proiettate le immagini, tra gli scaffali si faceva spazio un percorso espositivo, le sedute sono state ricavate dal materiale del deposito (bidoni di pittura capovolti e grosse balle di cartone). 






Si apre definitivamente lo spazio ai nostri occhi. Meraviglia. Un capannone industriale inondato di voci e di gente. 
Lì trovo tutta la Caserta che conosco e anche quella che non conosco. Lì trovo Caserta, la città vera. Perché la città vera è fatta dalle persone. Le persone fanno i luoghi. La città nasce quando una comunità prende consapevolezza di sé stessa. Vive quando questa comunità si unisce spontaneamente intorno ad interessi comuni e/o intorno all'esigenza comune di scambiarsi e di condividere idee e visioni, e soprattutto quando sentono tutti insieme nello stesso momento, i membri della comunità, l'esigenza del fare. Del fare le cose, del farle insieme, del farle subito, perché quello del fare è un bisogno che nelle persone affiora prepotente. 
La comunità che si unisce spontaneamente intorno all'esigenza del fare fa del posto che sceglie per incontrarsi un luogo e quel luogo è la città. La comunità edifica se stessa, crea una nuova città, la propria città, quella vera. 


Erano passate le 22.00 quando siamo andati via, il capannone era ancora pieno di gente. Circa quattro ore senza cali di tensione, in un susseguirsi emozionante di performance. Ho visto Raffaele emozionato e commosso, lui che è abituato a stare davanti al pubblico, a parlare alla gente, a fare da mediatore fra le mille forme che assume quella esigenza del fare quando da bisogno diventa fatto e il resto della comunità che dà senso al tutto con la propria presenza e partecipazione. A Raffaele tremavano i fogli che aveva in mano e un po' anche la voce e gli occhi quando all'inizio, salendo sul palco, ha potuto vedere bene il fiume di presenze che erano lì a ringraziarlo di esserci, a sostenerlo, a testimoniare quello che Ofca negli anni ha fatto, a chiedergli fortemente di esserci ancora. 


L'energia sottoforma di musica che accendeva e riattivava il ritmo in ognuno lanciata nell'aria da musicisti che diventavano tutt'uno con gli strumenti si è poi trasformata in voce e ancora in immagine a scorrere sullo schermo a raccontare i luoghi sventrati, maltrattati, depauperati del litorale domitio, a raccontarli però con la voglia di riconquistarli di farli rivivere, a raccontare la vita che c'è ancora dentro e non quella che è stata tolta.   
Il capannone degli Aveta chiuso da tempo, con all'interno il profumo cristallizzato del lavoro e della fatica tornava ad animarsi insieme ai presenti, sfilava il capannone stesso, e noi tutti, insieme alle donne sulla passerella, portavamo tutti addosso e tutti con orgoglio gli abiti nati grazie alla fatica di chi i sogni se li mette a cucire facendo scorrere metri e metri i stoffa sotto le macchine per cucire. Ci siamo vestiti tutti di sogni e insieme abbiamo danzato anche al ritmo colorato e contagioso di quel pezzo d'Africa che ha spostato i suoi sogni su questa terra di cui per troppo tempo non ci siamo curati. Che combatte con noi una lotta contro l'appropriazione indebita dei sogni e delle speranze e del diritto di essere e di fare e di pensare e di agire nella piena libertà.


La città non ha confini. è fatta dalle persone e sorge nel posto che le persone rendono luogo con la loro presenza. La città fatta di persone vive attraverso le persone. Siamo tutti chiamati ad essere pezzi di città, perché la città è l'unico luogo dove possiamo vivere. 

Grazie a Raffaele Cutillo, agli Aveta e a quanti hanno permesso e voluto e animato la città nuova, a quanti ci credono e fanno senza fermarsi a parlare di fare. E in bocca al lupo e un augurio di cuore che questa onda diventi tsunami a travolgere l'esistente e ad edificare la città che tutti desideriamo!


Cristina. 

[fotografia di Giovanni Izzo]



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[Disegni di Cristina Senatore su fotografie di Giovanni Izzo per "Adda passà a' nuttata"]